A me gli occhi please
DETTAGLIO
Anno: 1976Titolo: A me gli occhi please
Data di debutto: 05/06/1976
Teatro del debutto: Teatro Comunale
Città del debutto: Sulmona
CAST ARTISTICO
Gigi Proietti, Roberto CastriCAST TECNICO
Autore: Roberto Lerici, Gigi Proietti
Musiche: Fiorenzo Carpi, Ettore Petrolini, Luigi Proietti, Angelo Baroncini, Armando Trovajoli
Elaborazioni Musicali: Angelo Baroncini
"Era uno spettacolo fatto di contaminazioni: dentro c’era di tutto e tutto mancava. Non erano previsti scenografia o costumi, la regia dipendeva dalla mia recitazione, quindi o la stavo facendo io o, a seconda dei punti di vista, mancava pure quella, e avevamo un testo che era una giustapposizione di cose che secondo noi legavano, stavano bene insieme, dalla canzonaccia popolare al pezzo jazz raffinato, dalla satira al fattaccio romanesco, dalla canzone blues alla preghierina di Jules Laforgue. Tutte cose lontane migliaia di chilometri l’una dall’altra, ma che accostate creavano una sola musica. I numeri erano così diversi fra loro che decidemmo che sarei stato portato sul palco da un infermiere: la messa in scena era quindi il frutto di uno sfogo, della pazzia dell’attore. Insieme a me, sotto i riflettori, ci sarebbe stato solo un baule dal quale, di volta in volta e a seconda del pezzo recitato, avrei estratto degli oggetti. Debuttammo a Sulmona, in un teatro piccolissimo, perché lo Stabile de L’Aquila serviva tutte le città vicine coi propri spettacoli, ed era prevista una mini tournée di quindici tappe in altrettante cittadine abruzzesi. E fu allora che successe qualcosa di inspiegabile. Di certo non fu merito del passaparola, perché il pienone c’era già dalla prima sera. Finimmo i biglietti in ognuna delle date e ogni volta fuori dal teatro trovavamo ragazzi che urlavano e facevano di tutto pur di riuscire a entrare per vedere lo spettacolo. Una cosa mai vista, che stupì me e Roberto per primi. Ogni sera entravo in scena da solo, cambiando personaggio ininterrottamente per ore, in una sfilza di situazioni, di movimenti, di voci, di cambiamenti di tono che avrebbe sfiancato chiunque. Era così, un pezzo dentro l’altro, ognuno a fare da introduzione al seguente, senza nessuna pausa. Neppure una chiacchiera col pubblico, come mi capita di fare adesso. Finivo ogni spettacolo distrutto, sudato, fradicio, ma con addosso un’adrenalina speciale. Quando finimmo questo tour in provincia tornai a Roma. Dopo qualche tempo mi chiamò Carlo Molfese, un impresario che aveva montato una tenda da circo in un enorme spiazzo e voleva organizzarci una stagione teatrale. Mi chiese se per caso avevo delle proposte da fargli, visto che doveva riempire un calendario, per cui fissammo un appuntamento per fare un giro dentro a quel nuovo «teatro». Lo spazio era certo diverso dai teatri paludati. Ma in quelli era difficilissimo entrare. Il palco permetteva una grande libertà di movimento agli attori e i posti a sedere avrebbero potuto contenere il pubblico di un concerto rock più che di una rappresentazione teatrale: erano oltre duemila, niente prenotazioni, niente posti riservati. Da attore l’idea del Teatro Tenda mi sembrò fantastica, come business mi sembrò un suicidio: come si potevano riempire tutti quei posti? Ma il bernoccolo degli affari io non l’ho mai avuto, quindi lasciai perdere e mi concentrai sulle potenzialità sceniche di un posto così originale. Iniziai a scrivere, insieme a un altro autore, uno spettacolo per il Tenda. Pensavamo a qualcosa che ricalcasse L’opera da tre soldi di Brecht, recitata però in napoletano: L’opera dei mort ’e famm’. Credevamo che l’uso del dialetto avrebbe potuto avvicinare un pubblico più vario, che magari di solito era intimorito dal nome di Brecht. Inoltre avrebbe reso alla perfezione la natura musicale dell’opera. La scrittura, però, procedeva a rilento e l’idea finì nel dimenticatoio. Il tempo passava e nel frattempo la stagione del Teatro Tenda era già iniziata. Una sera, mentre ero a cena in una trattoria con Lerici, arrivò Molfese molto arrabbiato. «Porca miseria, Irene Papas!» ci disse disperato. «Doveva venire a fare Medea e m’ha dato buca. È una tragedia, ragazzi, una tragedia.» «Sì, Carlo, Medea è una tragedia. È una tragedia greca.» «Sì, Irene è greca.» «Sì, ma anche la tragedia è greca…». Cominciò così, con Molfese, una grande amicizia che ancora dura. Roberto e io smettemmo di prenderlo in giro, ci scambiammo uno sguardo di intesa e mi feci avanti.«Be’, noi veramente avremmo uno “spettacolino”…». Molfese era talmente alle strette che non chiese troppe spiegazioni. Mi lasciò finire di parlare e ci fissò un appuntamento per andare a vedere il teatro tutti insieme. Quando entrammo nel tendone vuoto, mi girai verso Roberto. Ero molto perplesso. Guardai le file sterminate di sedie e il loggiato in alto. Quando entrammo nel tendone vuoto, mi girai verso Roberto. Ero molto perplesso. Guardai le file sterminate di sedie e il loggiato in alto. Pensai all’acustica, a come sarei riuscito a farmi sentire da tutti. Al fatto che sarei stato solo sul palco. Lo presi da parte e gli dissi: «È troppo grande ’sto posto, Robe’. So’ dumila posti. E quando mai lo riempimo?». Stranamente quella volta fu Roberto a trascinarmi, a tranquillizzarmi. «Guarda, Gigi» mi rispose, gesticolando verso la platea, «possiamo ridurlo: transenni lì e lì, e alla fine sono al massimo cinquecento posti. Secondo me ce la possiamo fare.» «Ma chi vuoi che venga? Siamo pure sotto Natale…» «In Abruzzo è andata bene, no?». Ci sono avvenimenti che non è possibile spiegare. Cose che a ripensarci ti sembrano impossibili. Perfette come in un sogno, una magia, una recita. Preparammo lo spettacolo in pochi giorni. Roberto e io discutevamo sui diversi pezzi, su come montarli, glieli recitavo urlando in camerino. Sagitta, intanto, cuciva il sipario. Come costume usavo un pantalone scuro e un’enorme camicia bianca senza colletto – l’avevo tolto pensando che sarebbe stato necessario mettere una gorgiera diversa a ogni cambio di personaggio, cosa che poi s’è rivelata inutile – e l’unico oggetto di scena era un grosso baule di fattura volutamente tutt’altro che nobile. Alle nostre spalle, dietro le quinte, c’era una gabbia con sette leonesse, rimaste da quando la tenda ospitava un circo. Molfese pensava che se le sarebbero portate, invece erano ancora lì. E mentre mi affannavo nelle prove e a organizzare lo spettacolo, il signor Rossi, il proprietario della tenda, trovò il tempo di fermarmi e chiedermi: «Gigi, ti interessa un leone? Ti faccio un prezzo buono». «E che ce faccio? Me lo porto a spasso? Quello se magna ’na macelleria al giorno.» Lui non si scompose e continuò a proporre l’«affare» a chiunque si aggirasse dietro le quinte. Voleva vendere al minuto… Come camerino usavo una roulotte parcheggiata dietro la tenda. La sera della prima ero lì a truccarmi quando sentii delle persone correre e poi le urla di Sagitta e Roberto: «Gigi, c’è la filaaa!!!». «Nun me coglionate» gridai da dentro. «Eppoi so’ le sette… è presto.» E invece. Mi tirarono fuori e mi fecero affacciare dalla tenda. C’era una fila pazzesca. Dall’ingresso del teatro a piazza Mancini, le persone arrivavano fino al Tevere. «Non è possibile, non possono essere tutti qui per lo spettacolo. Robe’, che ce sta qua accanto?» «C’è il fioraio. E la trattoria, ma mi sembrano troppi per andare a cena.» Era incredibile, inspiegabile. Non poteva essere stato il passaparola, perché non avevamo ancora debuttato. Non poteva essere nemmeno la mia notorietà. Non poteva essere il posto, dato che quello era un teatro solo da poco tempo. Fatto sta che nei due anni che abbiamo trascorso al Teatro Tenda vennero a vedere lo spettacolo più di cinquecentomila persone.”
Gigi Proietti, “Tutto Sommato qualcosa mi ricordo”, Rizzoli 2013
“Evidentemente il pubblico annusa in anticipo l’eccezionalità degli eventi: e, per l'occasione, il pubblico ha avuto buon naso, Proietti è un ottimo attore, e questo lo sanno tutti; il cinema e la televisione gli hanno dato modo di farsi largamente apprezzare. Ma non tutti conoscevano (e, in parte, è stata una sorpresa anche per noi che facciamo professione di spettatori) la straordinaria vastità dei materiali che Luigi Proietti sa padroneggiare: tre ore da solo davanti a duemila persone. Impresa da pochi. Da pochi, vogliamo dire che sappiano convogliare le innate virtù drammatiche in una tecnica sapientemente elaborata e calcolata. Ebbene, Proietti riesce ad immettere una sua straordinaria vocazione all’istrionismo nei binari di un dosaggio professionale esemplare; canta, recita, balla, colloquia, gestisce con una felice disinvoltura che è frutto, certamente, di lunga fatica che qui non appare. E si dice sempre così (non è vero?) quando ci si ritrova dinanzi all’arte. Raccontare al lettore che cosa accade sul palcoscenico riempito da Luigi Proietti è quasi impossibile perché lo spettatore viene preso da una incessante altalena di ammirazione per l’acrobata d’avanguardia e di entusiasmo per il comico di tradizione, un sonetto apocalittico del Belli nasce magari da una irresistibile parodia del canzonettismo napoletano, un Petrolini rivisitato senza complessi sfocia in una satira dell’Avvocato per antonomasia (il signor Fiat, naturalmente), una canzone d’amore si sdrammatizza subito nello sberleffo, lo scherzo plebeo si innesta nello sconsolato ritratto d’un Paese che pure si svegliò (trent’anni fa o trecento?) alle grandi speranze della Resistenza. E così via in un ritmo Incalzante sostenuto da un tappeto musicale (elaborazioni di Baroncini) decisamente egregio. Che dire di più ai nostri lettori? Cercate di non perdervi quest’occasione.”
Ghigo De Chiara 9/12/1976 L’Avanti
“Solo con una piccola orchestra su un grande palcoscenico, Luigi Proietti tiene egregiamente testa al numeroso pubblico del Teatro Tenda. Presenta A me gli occhi please, un ricco zibaldone di Roberto Lerici, grande occasione per un istrione di razza, ben cucinato con tutti gli ingredienti più accattivanti.Per prima cosa raccoglie gli echi delle fatiche televisivi di Proietti stesso, quei Fatti e Fattacci realizzati con Ornella Vanoni, sicuramente tra i più fantasiosi spettacoli musicali televisivi degli ultimi anni. Poi mescola bene tre o quattro dialetti assortiti: il romanesco del Belli, il napoletano della sceneggiata, il piemontese che si parla a Mirafiori e perfino un po’ di bolognese, introdotto di sortita grazia ad un Balanzone rammodernato per satireggiare i baroni della medicina moderna. Sotto sapienti giochi di luce Proietti recita e canta di tutto: il Pater Nostro e l’Essere e non essere con più di una licenza di improvvisatore, I salamini di Petrolini e le strofette del Rugantino. Satireggia i suoi colleghi «impegnati», definendo Brecht «una commedia di Grassi e Strehler», dando lezione di arruffate teorie teatrali. Fa il verso a Carmelo Bene con voce lamentosa, ma non riesce a farlo a Vittorio Gassman, prendendone più di un accento. Il gran Vittorio, del resto, in sala alla prima si divertiva e rideva di cuore quanto i suoi duemila vicini. Proietti intanto amplifica i gesti, gli effetti, sospende le battute attendendo l’applauso anche dell’ultima fila. Gigioneggia con grande sicurezza in una sorta di gigantesco mono-cabaret, dà allo spettatore l’ebbrezza di temi vagamente intellettuali e poi gli lancia un effettaccio da avanspettacolo, un gesto plateale, una battuta televisiva. Dalla sua ha non soltanto una grande presenza scenica, ma anche una bella voce da sfruttare co false ballate western e autentici stornelli romani, tristi canzoni recitate e perfino scivoloni nel melodico da night. A questo punto fare la tara alla intelligenza dei testi, misurare col calibro lo spessore dell’interpretazione non ha importanza: quello che conta è l’accoglienza del pubblico, calorosa fino a interrompere la recita con un urlo da tifoso:« a Gigi sei er mejo».”
M.G. 9/12/1976 Corriere della Sera
La scena non esiste. Non c’è nemmeno un vero e proprio palcoscenico, ma solo una vasta pedana spoglia che non rappresenta, non finge di essere un altro posto, un luogo speciale, piazza, bosco, chiesa o camera da letto, una pedana e basta: un rialzo, che serve solo a rendere meglio visibile chi ci sta sopra. Da una parte, sulla pedana, è piazzata un’orchestrina di pochi strumenti, che fornisce il commento musicale, l’accompagnamento delle canzoni, lo sfondo delle parole, un po’ di ritmo, un po’ di rumore. Una presenza senza troppa importanza. Come quando si tiene la radio accesa, mentre si fa qualcosa, e solo di tanto in tanto ci si bada, si alza il volume, poi si torna ad abbassare, le si assegna una parte, poi gliela si ritoglie. In scena, per tutto il tempo, anzi, per tutto il primo e tutto il secondo tempo, c’è un attore solo. Da una cassa, che ha portato dentro e sbattuto per terra, leva un cappello, una maschera, un bastone, cose così, oggetti morti e senza significato che l’attore richiamai vita, per farne il supporto (gracilissimo, potrebbe anche non esserci) di un personaggio, lo spunto di uno sketch, il prolungamento di un gesto, il pretesto per una finzione. Due o tre volte compare anche un secondo attore, che è anche meno di una spalla, è uno che attrae su di sé l’attenzione per far sì che l’attore principale possa riprendere fiato e ricominciare a giocare a fare l’attore, a passare in rassegna tutte le possibilità della parola «attore». Recitare un testo, fare la parodia di uno che recita un testo, rifare Petrolini, Gassman, Rugantino, Carmelo Bene, Bertolt Brecht, un cantante americano (che parla e canta un americano immaginario), un comico meridionale (che parla un dialetto inesistente) un professore di educazione sessuale. Ogni tanto sembra di guardare un video televisivo, ogni tanto si ha l’impressione di stare al cinema, la materia prima con cui l’attore gioca a produrre il suo mondo sonoro e visivo è infatti la più composita, un impasto di teatro, cinema , televisione, letteratura, avanspettacolo. La parodia digerisce e assilla ogni cosa, dal «lazzo» della Commedia dell’arte alla smorfia surrealistica. Quando l’attore infila cascate furiose di parole senza senso dietro le quali appaiono e scompaiono infiniti personaggi e innumeri realtà l’una diversa dall’altra, e maie stato più vero che «la vita è una storia raccontata da un pazzo, piena di rumore e di furore, che non significa nulla». Il pubblico ride e applaude in continuazione, trasformandosi in coro. E’ così che abbiamo visto Gigi Proietti la sera della duecentesima replica di «A me gli occhi, please». O forse erano già più di duecento, tra una stagione e l’altra, un calendario e l’altro, le repliche del lungo monologo parlato, cantato, mimato, saltato e ballato che ogni sera costa all’attore in fatica l’equivalente di una finale olimpica, sotto la tenda teatrale che i romanzino si stancano di affollare, dopo aver fatto democraticamente la cosa per il biglietto democraticamente unico (non si prenotano posti, inutile telefonare, chi primo arriva meglio alloggia). Questa sarà anche una delle ragioni di un successo che ha pochi precedenti: il fatto di un teatro che fa radicalmente a meno del rituale mondano, della facciata borghese, della classificazione del pubblico (platea, palchi, loggione), di ogni pretesa liturgica: che non impone cerimonie preparatorie o propiziatorie di alcun genere: che va in cerca di uno spettatore di massa per strade diverse dal paternalismo culturale. Al Teatro tenda la gente non ci va come a una lezione di letteratura, ma come a qualsiasi altro spettacolo popolare: la partita di calcio, il varietà, per esempio. Con diritto all’intervento, alla battuta, all’interruzione. Eventualmente al fischio. Al limite, alla «caciara». Ma la creazione o l’evocazione, di un simile pubblico non è già più funzione del solo contenente (la tenda). Dipende dal contenuto (lo spettacolo). La tenda è una condizione necessaria ma non sufficiente. Mettiamo nella tenda un qualunque spettacolo della stagione teatrale romana e vediamo se dà gli stessi risultati. Proviamo a contare gli attori italiani che potrebbero reggere da soli, per mesi un pubblico che il sabato e la domenica arriva facilmente a duemila persone e vediamo se occorrono tutte le dita di una mano. Si fa prima a scartare. Questo no, perché troppo monocorde. Quest’altro neppure perché se gli togli la parola non è nessuno. Questo perderebbe la voce in una settimana. Quest’altro non ha più il fisico per il gioco a tutto campo. Si può fare la controprova: stendere, da un lato, l’elenco delle qualità che deve possedere un attore per diventare il perno di un successo come quello di «A me gli occhi, please», ed elencare di fronte, gli attori che possiedono quelle qualità. Il risultato sarebbe probabilmente lo stesso: le dita di una mano irebbero di troppo per la conta. Quello che Proietti fa in una sera è quantitativamente tanto che basterebbe a stancare una dozzina di attori normali: parliamo della quantità di parole che deve pronunciare, cantare, gridare, storpiare, della quantità di suoni non verbali che deve emettere, mugolare, sparare, guaire, della quantità di movimenti, gesti, salti, capitomboli, corse, piegamenti, balzi, che deve eseguire, ritmare, caricare di significati, eccetera. I due strumenti che debbono produrre tutta questa materia sonora e visiva, cioè il corpo e la voce, sono sottoposti a sforzi da primato, a continui cambiamenti di registro e di velocità, a improvvise e violente metamorfosi. Debbono comunicare, esprimere, imitare, alludere, giocare, assumere ed abbandonare ruoli, entrare e uscire da personaggi, maschere, «gags», abolendo, o riducendo al minimo, gli intervalli non significativi. La piena padronanza deuoi due strumenti e la giovanile prontezza di riflessi permettono a Proietti di far sembrare un gioco quel che è invece frutto di lungo e paziente esercizio. Viene in primo piano la fantasia dell’attore che scioglie in essa senza residui il suo lavoro intellettuale. Qualcosa di analogo succede per i contenuti dello spettacolo. I testi sono sovente complessi, affilati di citazioni colte, di riferimenti letterari. C’è dietro un lavoro linguistico notevole, un gusto tutto moderno per il «collage» e per il «pastiche», il piacere delle mescolanze ibride. Ma Proietti scioglie il tutto in un linguaggio perfettamente accessibile e comprensibile allo spettatore di comune, o anche limitata cultura e sensibilità. Non nasconde le finezze Manon le ostenta. Non cancella le allusioni sottili ma le rende il più possibile trasparenti. Lo spettacolo, così, è ugualmente leggibile e godibile a diversi livelli. Lo spettatore semplice non viene mai mortificato e offeso, trattato da ignorante o da cretino. E non per questo la materia dello spettacolo risulta appiattita, demagogicamente avvilita. La capacità di farsi capire da tutti è tra le qualità migliori di questo attore che rifiuta gli atteggiamenti aristocratici, gli snobismi pseudointelettuali, le gigionerie pseudo-avanguardistiche. Non è una dote Spontanea e istintiva, una qualità costruita, una scelta. A Proietti, evidentemente, interessa l’idea di un teatro oggi, per il pubblico d’oggi, con il pubblico d’oggi, che ha una sua particolare esperienza di spettacolo (la TV, il cinema) diversa da quella del pubblico del teatro tradizionale, che va scomparendo. «A me gli occhi» è il tentativo di dare una risposta alla domanda:«che pubblico esiste oggi per il teatro? Che cosa vuol dire teatro per questo pubblico?». La risposta è in chiave comica, con forti risvolti di parodia. Ma l’operazione culturale che configura è molto seria. Proietti ha dovuto cominciare col mettere da parte i generi, proibirsi il ricorso al repertorio, vietarsi il sostegno delle convenzioni, tentare di costruire un linguaggio partendo, per così dire, dalle lettere dell’alfabeto: lo spazio, l’attore, il suo corpo, la sua voce, la sua esperienza e storia di attore. Per certi versi l’operazione assomiglia a quella portata avanti da Dario Fo, un altro che ha ricostruito da zero il teatro su se stesso (si capisce, con tutte le centomila differenza del caso, bisognerebbe essere ciechi per non vederle). Fo ha dato vita a un suo repertorio. Bisogna vedere ora, anzi bisognerà vedere in seguito (perché ora «A me gli occhi, please» va avanti benissimo) se Proietti saprà fare altrettanto. Vitalità, mezzi e coraggio ne ha da vendere. Poi ha una qualità che pochi coltivano nella vita: è uno che non invidia i suoi colleghi. Andate a cena una sera con un ragioniere e prima o poi dirà male di tutti gli altri ragionieri. Andateci con un giornalista e prima o poi saprete tutto il male che pensa degli altri giornalisti. Novantanove attori su cento si comportano allo stesso modo. Proietti no. E’ incredibile, ma è proprio uno che non si dà arie, che non pensa di essere il centro dell’universo e l’ombelico del cosmo. A fare l’elenco degli attori di cui parla con simpatia, ci sarebbe da passare per bugiardi a divulgarlo. E’ una persona leale. Vuol dire che si sente forte. Un numero di più per andare lontano.
Gianni Rodari, 05/02/1978, Paese Sera
“Quando un mattatore della scena è convinto d’avere in pugno il suo pubblico, a volte prega di battere le mani a tempo. A Torino, per un vecchio riserbo, il gioco fallisce nove volte su dieci. Ieri era evidentemente l’occasione buona: gli spettatori dell’Alfieri hanno seguito con buon ritmo e totale adesione l’attore che imperversava alla ribalta. Così Luigi Proietti, con «A me gli occhi, please» di Roberto Lerici, ha riportato l’ennesimo trionfo in questo suo ritorno alla prosa. Più che di prosa bisognerebbe tuttavia parlare di teatro allo stato puro perché, sulla scorta dell’esatta e graffiante scrittura di Lerici, Luigi Proietti delinea un discorso completo sull’attore. Non situata d’un recital perché non ne avvertiamo l’affastellamento dei testi, non si tratta d’una serata d’onore perché mancano i vezzi e i complimenti che la caratterizzavano. Siamo in presenza d’uno spettacolo originale che si modifica a poco a poco di replica in replica (una curiosità, per strada si è perso il monologo che dà il titolo alla rappresentazione) senza scadere nel fastidio del discorso personale. Proietti non si nega a nessuna esperienza. Come per siglare la sua fatica, ha richiamato i componenti del quintetti I soliti ignoti che avevano accompagnato i suoi primi tentativi nel campo della musica leggera. Si fa gioiosamente vedere in tutta la sua fisicità: rotea gli occhi, dimena braccia e gambe, si profonde in falsetti e accelerazioni. Non dà fiato a se stesso e soprattutto alla platea. Ride e ridiamo, sproloquia e ascoltiamo, commuove e quasi staremmo per metterci a piangere. Ma siamo cinici, siamo duri e Proietti ci serve qualche invettiva per consentirci almeno un’impennata. Altrimenti in teatro ci sarebbe solo lui. A dire il vero non ha bisogno di granché per esplodere. Da una cassa estrae gli arnesi del mestiere: una bombetta, un bastone, una bottiglia. Gli serviranno per un minimo di caratterizzazione, al resto provvederà la sua inventiva. In certi momenti è fantastico nel riprodurre un Petrolini o nell’imitare Gassman, in altri momenti è assolutamente originale (e maligno). Chi può essere tanto esauriente in una satira come nel suo discorso sull’attore di estrazione popolare che pretende di buttare la parolaccia sul pubblico con lo stesso impeto della grandine? Quando la stira si volge in farsa, gli effetti sono immancabili. Il discorso del professorone oriundo pugliese sull’educazione sessuale è un compendio di mediocrità, compromessi e ignoranze tali da strappare l’applauso ai più avari di elogi. Al termine, Proietti se ne va con il suo bagagli odi cianfrusaglie e di illusioni sfilando tra i suonatori che hanno eseguito le elaborazioni di Angelo Baroncini e sgattaiolando tra le mani prensili di Roberto Castri, che gli fa da spalla e da gendarme. Le chiamate premiano un attore completo, l’erede di Vittorio Gassman.”
Piero Perona, 22/03/1978 Stampa Sera
“E’ giunto l’altra sera all’Alfieri dopo oltre un anno di reiterati successi, A me gli occhi, please, lo spettacolo che ha costruito su misura e in stretta collaborazione con Gigi Proietti. Vorrei insistere sul termine «spettacolo»: questo non è infatti, come la sua struttura semplice e lineare potrebbe far credere, uno show, né un recitale tantomeno una serata di gala. Il fatto che Proietti, grazie al suo formidabile camaleontismo, faccia tutto da sé, per due ore filate, non toglie affatto, anzi implica rigidamente, in qualche modo, che il suo discorso sia percorso e connesso da un evidente «filo rosso». E il filo rosso è quello di un attore d’oggi dinnanzi ai dubbi, alle remore, ai ricatti della propria esistenza. Un uomo come tanti, non più incerto o frastornato di tutti noi: ma con quella scommessa in più da dover vincere ogni sera, la scommessa, esaltante e terribile, d’esser un altro. Eccolo allora estrarre da un acassa, che - come un amico guitto - si porta dietro, gli oggetti-simbolo della sua pratica quotidiana. Sarà a volta a volta un attore «brechtiano» all’italiana, che confonde la dialettica e lo straniamento con la viscerali; uno showman americano dall’insopportabile confidenzialità, punteggiata di risatine asteroidi; un trucidando eroe della sceneggiata napoletana, che recita, anzi minaccia il pubblico con tutto un armamentario di gesti e smorfiacce. Ma un attore - ed ecco la filigrana del discorso, che lo fa propriamente spettacolo unitario - è anche un uomo, che reagisce ai falsi idoli, ai compromessi, al marionettismo della società in cui vive. Se si sfoga a parodiare i malcapitati compagni di scena, sente con eguale ostinazione l’impulso a smascherare i propri compagni di vita: il Doctor eminentissimus, in cui il Balanzone della commedia dell’arte è tutt’uno con un barone dell’odierna medicina; l’usuraio della propria madre, impegnato in una spassosa telefonata muta; il sessuologo diseducato e represso, che riesce a tramutare la sua lezione in un elogio della pornografia. A questa gentuccia senza’anima ammicca dal suo teatrino, un patetico Rugantino, il burattino della Roma papalina. E’ il popolo che perde sempre, impigliato nei trucchi di chi la sa lunga, ma almeno si sfoga a parole, nella beffa e nell’irrisione:«Me n’hanno date, ma glie n’ho dette tante…». Il solitospettatore di palato fino potrebbe obiettare che, a dispetto delle buone intenzioni e degli ingredienti di varia letterarie, questo è teatro facile, di onesto intrattenimento. Proietti lo previene, in un dialogo immaginario (mica troppo!) con il critico teatrale, che lo invita «a trovarsi uno spazio». Il dialogo ( che sfocia nella lettura di una poesia in stile alto, tirassegno per i vari Gassman e Bene), lascia intendere che oggi far teatro vuol dire recuperare tutte le componenti della spettacolarità senza falsi pudori o barriere di genere. E Proietti, bisogna dirlo con schietta ammirazione, le carte in mano per vincere la sua partita le ha proprio tutte e le sa mettere giù con la maestria del giocatore incallito. Quest’attore ancor giovane è maturato eccezionalmente in quindici anni di apprendistato teatrale, cinematografico, televisivo. Ha una voce da cantante intonata e dalla gamma assai estesa; una mimica aggressiva, con due occhi magnetici; una gestualità ariosa; e, in un panorama di attori che il corpo, più che averlo, se lo portano dietro, pone a frutto sano atletismo e resistenza da maratoneta. Ma, ciò che più conta, mette in tutto quello oche canta, recita o mima un’accattivante riserva di autoironia. E’ come se tenesse in mano una granata, pronta ad esplodere, ma col dito ben premuto sul filetto della sicura. Il pubblico sente, anche se è impalpabile, l’allegra umiltà di cui vela e scherma le sue esibizioni più oltraggiose e sfacciate, e gli tributa, cordialissima, tutta la sua simpatia. L’altra sera gli applausi erano non solo festosi, ma tenaci addirittura: come se la gente non si volesse staccare dal suo beniamino.”
Guido Davico Bonino,23/03/1978, La Stampa
“Cosa può inventare un attore in scena da solo, in due ore? La soluzione al problema è abbastanza facile. Basta assistere allo spettacolo «A me gli occhi, please», che ha debuttato con grande, clamoroso, successo al Manzoni, ieri sera, per rendersene conto. E’ sufficiente lasciarsi «coinvolgere» da Gigi Proietti, protagonista assoluto (con periodiche comparse di una bravissima «spalla» quale il medico-infermiere-gendarme Roberto Castri) di questo recital per capire che l’attore italiano a volte non è solo birignao o accademia polverosa ma anche uno scoppiettare continuo di trovate e di fiuto della teatralità a dir poco insperata. «A me gli occhi, please» non è cosa nuova. Due anni di repliche, i continui esauriti al Teatro Tenda di Roma testimoniano la validità d una formula nella quale la citazione (Petrolini, Rugantino, Balanzone ovvero la commedia dell’arte), l’ironia (lo showman americano, la sceneggiata napoletana), la comicità, le canzoni, la demistificazione (la lezione di educazione sessuale, il finto popolare, lo straniamento brechtiano) trovano un leitmotiv, un filo conduttore, una linea di racconto. Ma che rimarrebbe dello spettacolo, se non ci fosse Proietti sempre pronto ad ammiccare, a giocare, a mutare il volto proteiforme intento di continuo ad aprire o a chiudere il suo baule di teatrante, zeppo di cose da trovarobato, di follia e genialità? Poco o nulla, ne sono certo. I segreto della formula è lui, solo lui; questo attore magro, allampanato, il sorriso un po’ equino, la faccia e il corpo mobilissimi, che vanno a tempo di voce. Canta, mima, intrattiene il pubblico, lo aggredisce con violenza recitativa inconsueta, oggi come oggi, tra gli interpreti della sua generazione (non tocca i quaranta anni), gioca, ride, recita, ammicca, diverte, si diverte, dialoga, monologa, crea lì per lì gli sketches estemporanei (o presunti tali), soprattutto fa ad ogni istante una esemplare lezione di teatro…Per due ore la sua «fantasia» calcolata, calibrata, esuberante all’apparenza, in realtà studiata e misurata, suscita ammirazione, meraviglia, entusiasmo e anche la gioia sempre più intensa per uno spettaoclo-monologo in cui sgorgano da un abocca sola non un ama cento, mille voci, e da una sola faccia, non una ma cento, mille facce. In fin dei conti fa proprio tutto, ed è anche tutto: recitazione, scena, regia. Proprio come un mostro sacro del tempo che fu, il quale all’improvviso, oggi, e per miracolo, rispunti nella piazza rinsecchita del nostro teatro.”
Carlo Brusati, 30/03/1978, Corriere della Sera
“E allora, ecco Luigi Proietti, attore, cantante, dicitore, clown parodista, in questo spettacolo A me gli occhi, please, che segnò nella stagione scorsa, al teatro Tenda di Piazza Mancini. A Roma, uno dei più folli momenti di aggregazione del pubblico; pubblico di tutti i ceti, borghese, popolare, e di tutte le età. Eccolo, il Proietti, solo sul palcoscenico, con la sua cassetta dei trucchi, dalla quale cavacolta a volta un cappello, un amaschera, un bastone. E’ solo, anche se ognitanto un’abile «spalla» intreccia con lui un dialogo soprattutto mimico. E’ solo, anche se un complessino di sei elementi lo accompagna nelle canzoni e dà in qualche modo una replica e un sostegno al suo flusso monologante. La caratteristica di questo spettacolo sta infatti in una riscoperta dell’energia fantastica e creativa dell’attore. No è tanto un recital quanto un itinerario ragionato e, in un certo senso, critico all’interno delle enormi potenzialità che la pura vocazione istrionica può ancora avere, una volta liberata e scatenata negli pazze che le apre l’estro personale. Sono potenzialità che forse lo spettatore moderno, salvo in casi eccezionali (Eduardo, Gassman, Fo, Carmelo Bene) aveva un po’ dimenticato, abituato com’è da decenni di teatro registico a guardare più al disegno organico di uno spettacolo che agli exploit individuali dei suoi interpreti. In questo senso, l’apporto di Roberto Lerici, più che autore dei testi (alcuni dei quali, e fra i più spiritosi, ha però direttamente scritto) organizzatore del materiale da recitare o cantare, è stato determinante. Pungente scrittore di teatro, Lerici, col suo gusto della sperimentazione e del dubbio, fa partire Proietti da zero, dalla tabula rasa, da un interrogativo implicito che suona presso a poco così: è ancora plausibile, oggi, il mestiere dell’attore? Ecco, appunto, basta un acassetta con dentro qualche trucco; e poi estro, ma certo, e la voglia anzi la felicità di rappresentarsi; magari cominciando con un’arguta contestazione di alcuni moduli correnti. Ed ecco, in un romanesco ammiccante, uno fra i primi pezzi della serata, «L’attore d’estrazione popolare», parodia o, meglio, presa in giro ironicamente immedesimata della recitazione e della gestualità epiche all’italiana. Ognuno di questi pezzi, a starci attenti, indica un genere o, più limitatamente, un capitolo della storia del nostro teatro: dalla commedia dell’arte alla sceneggiata, dal teatro dei burattini alla filastrocca petroliniana. Sono lì, esistono, patrimonio degli anni, vecchi abiti buttati alla rinfusa nel baule della tradizione. Si tratta di tirarli fuori e, indossandoli reinventarli e metterci dentro la vita d’oggi. Elastico, snodato, con quella sua faccia lunga e irregolare, sorriso abbagliante, allegro e un po’ isterico (il sorriso crudele che i grandi giullari rivolgono spesso contro se stessi) Proeitti si scatena, di pezzo in pezzo, con un piacere della mimesi che a poco a poco si trasforma nel sussulto felice d’una vera e propria nevrosi interpretativa dalla quale ogni resistenza dello spettatore viene travolta. Ascoltatelo come precipita giù per i gradini scivolosi e assurdi un grammelot americano da show-man televisivo; guardatelo come improvvisa le frasi prive di senso d’una sceneggiata napoletana, passando dai toni erratici alla Eduardo alle lamentazioni stridule d’una Pupella Maggio e intanto si manovra un avambraccio e una mano come fossero protesi, disponendoli secondo i segni di un’antica gestualità pulcinellesca. Quando, con quella voce possente che dispone anche di un risvolto agro, Proietti rinfodera le strofette petroliniane è tutta una vecchia Italia che riemerge, un silenzio livido graffiato da quel becco di civetta, buffo e doloroso. Per non dire di quella lezione di terminologia sessuale, fatta da un maestro che non riesce a oltrepassare i tabù linguistici e perciò si rifugia nella sbronza, sempre più ubriaco e sempre più inibito man mano che s’avvicina al nocciolo della questione. Poi l’attore si addentra, chitarra invisibile a tracolla, nei vicoli della canzone romanesca e nei sonettino del Belli; per riaffacciarsi poi, con la faccia fissata nella maschera frustrata e dispettosa di Rugantino, alla ribalta d’un teatro di burattini. Così, quasi per scommessa, partito da una perplessità o, se preferite, da una sfiducia, Proietti ritrova, e ce ne fa partecipi, la felicità e la funzionalità dello strumento espressivo chiamato attore; i suoi umori antichi, il suo vecchio e glorioso sudore messi a fermentare al centro di una curiosità nuova, di un’udienza di massa che vuole la sintesi e l’intercambiabilità dei segni, per cui la figura dell’attore sfuma in quella del cantante e tutti’e due di unificano nella sagoma guizzante dell’altleta ( o acrobata) da palcoscenico-schermo-video. Il pubblico dell’altra sera, al teatro di via Manzoni, era ancora uno specifico pubblico da teatro, da «prima»; ma la sua freddezza rituale si è sciolta presto negli applausi; e nelle acclamazioni che hanno salutato alla fine Proietti e i suoi collaboratori, i sei componenti dell’orchestra, Roberto Castri, «spalla» preziosa e Lerici.”
Roberto De Monticelli 31/03/1978 Corriere della Sera