Teatro - interprete

Edmund Kean

DETTAGLIO

Anno: 1989
Titolo: Edmund Kean
Ruolo: Edmund Kean
Data di debutto: 18/08/1989
Teatro del debutto: Teatro Antico
Città del debutto: Taormina

CAST ARTISTICO

Gigi Proietti

CAST TECNICO

Autore: Raymund FitsSimons

Regia: Gigi Proietti

Scene e Costumi: Franco Nonnis

Musiche: Fiorenzo Carpi

Versione italiana: Gigi Proietti

Con la collaborazione di: Roberto Lerici e Laura del Bono

Collaborazione aritstica: Loredana Scaramella

CURIOSITÀ
Il testo che segue fu scritto dall’autore di Kean, Raymund FitzSimons:
“Questa è la cronaca di uno straordinario evento teatrale.venerdì 18 agosto 1989 il mio monologo Edmund Kean debuttava sulle scene italiane al festival del cinema, teatro e musica di Taormina. Il ruolo di Kean era interpretato da Gigi Proietti. Da quando Ben Kingsley lo aveva messo in scena nel 1983, era stato tradotto rappresentato in diversi paesi, ma quella era la prima produzione straniera a cui assistevo.
Aspettavo quel momento con impazienza ma anche con timore. Gigi proietti è noto come uno dei migliori attori italiani, ma è conosciuto soprattutto per i suoi ruoli brillanti. Ha anche recitato nei musicals. La sua personalità e il suo aspetto attraente hanno fatto di lui un personaggio molto popolare. Edmund Kean sarebbe stato il primo ruolo tragico in cui si cimentava. Devo confessare che era un po' incerto.
Era andato a Roma ad assistere ad una sua eccellente interpretazione di Cyrano de Bergerac, ma questo non aveva sedato i miei dubbi riguardo alla sua capacità di interpretare Edmund Kean. Nello spettacolo, Kean è concepito come un mostro, un uomo sfrenatamente ambizioso, perennemente alla ricerca di una fama immediata: un uomo convinto in modo paranoico che tutti cospirino contro di lui, un megalomane che non permette a nessuno di splendergli accanto, un uomo sinistro, un vulcano di rancore accumulato, un temporale di veleno, un torrente di bile: un uomo con una spinta incontenibile all'autodistruzione che a trent'anni si è completamente consumato.
Sì, Kean è un mostro, abbruttito dall'alcol e sifilitico. Ma il mistero glorioso è questo, è anche il primo grande attore romantico e l'insuperabile interprete di Shakespeare. Per tutto lo spettacolo oscilla tra il suo carattere e quello dei personaggi che interpreta sulla scena, temprati dalle esperienze della sua vita. Le sue ambizioni riecheggiano nel Riccardo III. La misantropia sempre più profonda evoca Coriolano e Timone. Quando la sua mente è sconvolta si trasforma in Re Lear. L'addio di Otello- «Addio per sempre pace dell'anima mia, addio felicità del cuore!»-è visto come la chiave per comprendere la sua vera personalità. Per Kean non c'è tranquillità né appagamento.
Nell’«Addio» mette a nudo la sua anima tormentata.fra tutte le paranoie e le megalomania, le fanfaronate, le sbornia, le storie con le prostitute, ecco questa voce che chiede implorante pietà e comprensione.Gigi proietti, che non aveva mai neppure recitato Shakespeare era in grado di fare tutto questo? Laura del Bono e Neale Stainton, che avevano comprato i diritti italiani, mi assicuravano di sì, ma io avevo ancora i miei dubbi.
(….)Gigi Proietti raccolse la sfida a Taormina, dove recitò per quattro sere, ospite del festival di Taormina. 
(…)Lo spettacolo era fissato per le nove e mezzo, al calar del buio.
Quella sera dalla quantità di gente che si inerpicavano su per la stretta Via Teatro Greco, si sarebbe potuto pensare che stessero andando ad assistere ad una partita di calcio piuttosto che ad un monologo su un attore inglese del XIX secolo. Proietti era un po' preoccupato del fatto che il pubblico non sapesse quello che lo aspettava. Dopo tutto, era famoso come interprete di ruoli brillanti. Il suo disagio fu evidente durante i primi cinque minuti di spettacolo. Poi prese possesso del ruolo quando, come Kean, espresse il suo disprezzo per Kemble. Il modo in cui pronunciò il nome di Kemble consegnò quel grande attore all'oscurità più spregevole. E gli valse anche le prime grida di “Bravo!". La sua patetica dignità quando, affamato e senza una lira, affrontò l'aristocratico comitato del Drury Lane, pretendendo il ruolo di Shilock  come un suo diritto, chiamò un applauso prepotente. Ma calò il silenzio quando descrisse con tono di dolore venato di ironia la morte del figlioletto proprio nel momento del successo, questo portò un elemento faustiano allo spettacolo e da quell'istante un invisibile Mefistofele si mosse sulla scena. Nel secondo atto, quando le sue frustrazioni crescono, Proietti diventa Kean «furioso», ed io non fu l'unico a temere che si sarebbe staccato dal palco con un balzo per volare tra il pubblico e disperderci con la sua spada. 
Poi, quando il suo mondo va in frantumi, sedette borbottando fra sé e sé, e vacillò, cieco e zoppicante, sul palcoscenico. E venne il momento finale in cui, come Otello, cadde in ginocchio e pronunciò l’«Addio» come se fosse una preghiera, ogni «addio» sussurrato in un crescendo di sofferenza e di angoscia. Lo spettacolo finì e il pubblico si scatenò entusiasta. Io mi guardavo intorno e fissavo stupito quelle 8000 persone che, tutte in piedi, applaudivano e gridavano «bravo!». Mi girai di nuovo verso il palco dove c'era Proietti che mi invitava a salire al suo fianco e dividere con lui il suo trionfo.
(…) E questo era l'uomo che aveva tenuto 8000 persone in pugno, che aveva sbigottito i loro cuori, che le aveva fatte piangere. Ed era anche l'uomo che io avevo dubitato potesse interpretare Edmund Kean. Ora mi ritrovavo a chiedermi se non era stato Kean stesso ad evocare una tale risposta emotiva da parte del pubblico. Le altre tre repliche andarono completamente esaurite. La gente viene da tutta l’isola. Molti, che non riuscirono a procurarsi i biglietti, scalarono il ripido pendio dietro al teatro, si arrampicarono per più di un'ora per appollaiarsi in cima alle mura. Il Kean di Proietti crebbe in autorità una sera dopo l’altra. Alla fine dell'ultimo spettacolo egli mi confidò che quella notte sentiva di aver fatto qualcosa di splendido. Ed era proprio così. Continuammo a festeggiare gustando uno dopo l'altro i piatti della cucina siciliana e brindiamo ad Edmund Kean fino all’alba. Quanto Kean stesso avrebbe apprezzato tutto questo se fosse stato là. Ma poi -chissà?- forse c’era. Bravo, Proietti! Bravo, Kean! Bravo!
Raymund FitzSimons, Taormina, Agosto 1989

CRITICA
“…Va detto innanzitutto che Proietti, se non l’avesse osata questa grande scommessa sulle proprie prerogative non l’avrebbe nemmeno vinta. Invece l’attore, con molta riflessività e senza la faciloneria che avrebbe potuto affliggerlo di fronte a un’impresa meno impervia, ha lavorato molto e molto bene. Il testo, titolo Edmund Kean dello scozzese Raymund FitzSimons, che lo ha scritto otto anni fa per l’allora non famoso Ben Kingsley, è intanto di una funzionalità mostruosa. Congegnato con ottimo senso del teatro e dei tempi teatrali, ruffianò ma colto (FitzSimons è il più importante biografo di Kean), scaltro e al medesimo tempo poetico, non pare nemmeno un monologo, per quante varianti, possibilità e camaleontismi offre all’interprete, Nulla di più giusto per esaltare sia le armi conservative, affilate da Proietti in anni di affabulazione brillante, sia le radici «serie» di un attore che, non dimentichiamolo, ha cominciato recitando i classici. Nemmeno il pericolo, mai abbastanza esorcizzato dai mattatori, di essere registi delle loro performances al di là di ogni senso critico, ha intaccato l’importanza e il valore dello spettacolo. Proietti (con l’aiuto di Roberto Lerici e di Laura del Bono è anche curatore della versione italiana del testo) si è programmaticamente astenuto dai sovrappiù, censurandosi - e dunque promuovendosi in pieno - forse anche o proprio grazie al riserbo che la soggezione e il timore di certe prove incutono. Il risultato ottenuto dimostra che a teatro non possono valere né giustificazioni, né mezzi eventi, né, tanto meno mezzi attori. O lo spettacolo e gli interpreti esistono, come in questo caso, oppure no. Rammentarlo, di tanto in tanto, è salutare. Ma veniamo al Kean del Teatro Antico, Franco Nonnis, scenografo e costumista pieno di cure e di attenzioni, ha costruito per il poliunivoco personaggio un alveo di drappeggi e di accenni d’architettura Tudor, che alcuni mobili - lo specchio per la prova costumi, la toletta da trucco, la tradizionale cesta degli abiti - individuano come camerino dell’attore. Sullo sfondo alcuni manichini di giunco, drappeggiati in rosso e valorizzati da luci preziose, completano il quadro. Proietti ha raccontato dentro questa scatola di velluto e legno, segnata dall’accumulo delle bottiglie scolate a catena dal mattatore in fregola narrativa, la tempestosa storia di uno che, irridendo la propria miseria e l’ottusità del mondo, sottomise alla fine Londra intera alla grazia celeste degli eroi di Shakespeare. Bevitore e pettiniere, eppure dolce aedo, Kean dice degli stentati inizi, delle odiate pantomime interpretate, nei panni di Arlecchino, per guadagnarsiivl pane. Dice l’ostinazione degli anni bui, il ghigno ostile alla fradicia nobiltà inglese, l’indomabile speranza, premiata a un certo punto dal trionfo. Dice la stentata vita coniugale e le capriole oscene nel letto dell’amante; vomita fiele sulle pochezze altrui, ma nel contempo solleva il velo sui  vizi canonici dell’attore: narcisismo, insicurezza, protervia, invidia, prodigalità, pettegolezzo, infingardaggine… Coniuga la grandezza dell’artista: che belli, i ruderi dei grandi monologhi shakespeariani, strappati alla bocca con finta noncuranza, ed abilmente collocati dal testo in luoghi naturali, quasi fossero frasi necessarie, dal Riccardo III a Macbeth, da Otello ad Amleto, dal Mercante di Venezia alla terribile tirata, gravida di maledizioni, del Timone d’Atene. Esalta il coraggio dell’eccesso: che stiacciò, Proietti, nel suo nominare le prostitute dal grande culo, passione di Kean, con la stessa sensualità gelosa con cui Otello, getta in faccia. Jago la terribile esortazione, «il compito d’Otello è finito. Ma tu, canaglia, dammi una prova che il mio amore s’è fatta puttana…». Tutto, incredibilmente, credibile. Con in più la costante sensazione che ogni più piccola parte dello spettacolo, così proiettata verso l’Ottocento di Kean, subisca però le forche caudine della sua matrice settecentesca. Proietti si è davvero studiato di tirar fuori, dai recessi delle sue differenti esperienze, i pezzi sparsi del fatale ingranaggio. Li ha messi insieme, stimolato dall’occasione perfetta che gli offre il testo di FitzSimons. E ciò che si ritrova fra le mani, al dirà dei facili magnificat, è proprio teatro alto. Per il quale l’abusata definizione di «prova d’attore» si sostanzia finalmente di autenticità. Spiccare il volo verso altre mete dovrebbe essere, a questo punto, l’evoluzione naturale del tutto. Alla festa, che dura un paio d’ore, il pubblico avrebbe partecipato volentieri anche senza intervallo. Gli applausi sono stati torrenziali, veri, pieni della partecipazione di platea e gradinate, una tantum affollatissime di gente contenta”.
Rita Sala, 19/08/1989 Il Messaggero

“…il vorticare del carattere di Kean si addice all' ardimento di Proietti, e m'azzarderei a dire che più d' una volta ne svela, ne racconta in modo analogo l'ostinatezza d'animo congiunta a un'umana fragilità, a un'acrimonia di mestiere. Addirittura, è come se non valesse la pena di soffermarsi sul Proietti divo d'antan, che entra di getto nel suo quartier generale del trucco, munito di pastrano, cilindro, sciarpa bianca e stivali, e spadino. E non maiuscolo è l' ambiente in cui lui s' aggira, un dietro-le-quinte di panneggi dorati, un emiciclo dotato di toletta, specchi, lavabo, cesta dei costumi di repertorio, manichino e crescente collezione di bottiglie sorseggiate a volontà, con intorpidimento che man mano consuma il Kean narratore di sé. Non c'è décor convenzionale che tenga, insomma, per illustrare la sagoma e il contesto d'un uomo così alieno al suo prossimo, alle maniere. L'unico riferente è quel suo epigono fabulatore che si pone adesso davanti al pubblico del Teatro Greco, e che di sicuro condivide con l' antesignano Kean un amore non sempre ben ricambiato per Shakespeare, e che ha un' identica schiettezza, un pari scetticismo nei confronti delle sfere troppo intellettuali o burocratiche della ribalta, detestando le anticamere del far spettacolo, vituperando la promiscuità delle compagnie quando è in pericolo il proprio Ego. Il filo di tale fitto e intimo bilancio si ispira dunque alla vita di Kean, che dalle taverne e dalla carretta giunge alla soglia del leggendario Drury Lane, teatro londinese dove è ammesso a recitare Shakespeare. Per lui, è finalmente un traguardo, una nobilitazione, e che Kean abbia nel sangue tanti bei gesti resi immortali dal Bardo è reso qui esplicito sia attraverso intermezzi virgolettati, capitoli detti con veemenza, sia attraverso temi e battute solo indotte, moralità scontrose che s' assimilano all' umore, al parlare paranoico o accorato. In questa sorta di rapsodia aulica e non, è sembrato spesso di percepire un rammarico, un monito che appartiene al Gigi Proietti affermato padrone di molte metamorfosi sceniche, un Proietti che è tentato e respinto dal teatro serio, che è salace col suo ambiente, che rievoca volentieri l'elemento fescennino in lui connaturato, e lo fa allorché accenna alla pantomima-schiavitù dell' Arlecchino di Kean, con luci da passerella e un ghigno che sa di Petrolini. Lo spettacolo gli dà estro di citare a piene mani Shakespeare, dai sofferti imperativi di Amleto al panico di un Macbeth in vaneggiante deliquio, dalla collera fosca e afona di Otello che apostrofa Desdemona, al mellifluo e affilato discorso di Shylock ad Antonio, dalla schizoide e macabra perfidia di Riccardo III al gran rifiuto sociale di Coriolano, al congedarsi trepido di Timone d' Atene. Sarebbero i cosiddetti pezzi forti del Kean giunto all' apice della fama, e Proietti vi prodiga una ribalderia colma di smarrimento, di malia brusca: più per vocazione che per disegno. D' altronde, i suoi momenti più magistrali sono proprio quelli in calare, in rapido cambio di registro, come quando affronta l' episodio della scomparsa prematura del figlio bambino di Kean, e ne fa lievitare qualcosa di commovente. Vale a dire che non m' è dispiaciuto nel caricare a modo suo il dispotismo, nell' elevare a potenza (senza fingere) l' ideologia degli incassi di Kean, nel farseggiare con vestaglione colmo di alamari, nel biasimare i colleghi che lo impallano, nell' attribuire eroismo al talentaccio. Ma è nell' ansia del prim' attore, che sussiste una verità capace infine di prenderti. E l' esistenza come favola vuota, l' incrinarsi culminante della mistificazione, il Kean di Proietti che dopo bordelli e scandali si spegne come una candela, hanno un senso non retorico. E in parte ci si concilia con lui maratoneta, col prototipo ossessivo del Kean, con le scene e i costumi da stampe di Franco Nonnis, con le musiche rade di Fiorenzo Carpi.
Rodolfo Digiammarco, 20/08/1989 La Repubblica

“…Gigi Proietti è bravissimo, ed è quasi superfluo dirlo, e fa rimpiangere che le sue frequentazioni con Shakespeare siano così scarne (anni fa fu un ottimo interprete di «Coriolano»). Questa sorta di «Shakespeare-clip» naturalmente rende vano, e quasi risibile, qualsiasi approfondimento dei numerosi eroi (sette addirittura) sfidati e assaliti dall’attore con un’esibizione sopratutto isitintiva e quasi muscolare, di forza attoriale, in circa due ore di spettacolo, intervallo compreso, accolto alla fine da una vera ovazione dal numerosissimo pubblico…”
Pietro Favari, 20/08/1989 Corriere della Sera

“…Il testo di FitzSimons (a Londra è stato interpretato da Ben Kingsley) procede con lodevole gradualità verso l'abisso della perdizione, rispettando quindi i canoni romantici di cui Kean fu espressione ma soprattutto, alternando diversi ritmi, non concede al pubblico un attimo di sosta. E così è grazie alla generosità interpretativa di Gigi proietti che sembra aderire perfettamente a quel "realismo dinamico" di cui Kean fu maestro. E’ una prova fisica al limite dell'umano vista la partecipazione dell'interprete; d'altra parte è proprio questo l'impegno "titanico" che tiene a vinti gli spettatori, qui non viene concesso un attimo per distrarsi. E Proietti è sempre al massimo per scavare dentro Kean, per darci tutte le contraddizioni di quest'uomo, infine condannato alla solitudine dall'eccesso della consapevolezza di sé. Respiri, borbottii, urla, pianti: tutto viene utilizzato da Proietti senza mai gigioneggiare, anzi con la giusta misura del tragico, e piegato alla costruzione di un personaggio che a fine spettacolo sembra ormai a tutti di conoscere perfettamente. Un semplice gioco di luci e un costume che Kean trae dal baule segnalano i testi scespiriani: qui Proietti reinventa uno stile che non è quello d'oggi ma, evidenziando i sentimenti, rimane sempre in linea con Kean portando il pubblico naturalmente alla seconda parte quando l'essere e l'apparire si confondono sempre più fino a raccontarci quanto può essere difficile da padroneggiare il mestiere dell’attore. Un trionfo, si diceva all'inizio, segnato dai numerosi applausi a scena aperta e dalle lunghe ovazioni finali che hanno accomunato anche FitzSimons, salito sul palcoscenico. Nel teatro antico si replica fino a domani.”
Vincenzo Bonaventura,20/08/1989 La Gazzetta del Sud