Teatro - interprete

Gli Uccelli

DETTAGLIO

Anno: 1964
Titolo: Gli Uccelli
Ruolo: Upupa
Data di debutto: 09/07/1964
Teatro del debutto: Teatro Grande
Città del debutto: Pompei

CAST ARTISTICO

Tino Carraro, Edmonda Aldini, Franco Sportelli, Armando Bandini, Gianni Bonagura, Sandro Merli, Renzo Palmer, Alfredo Censi, Claudia Giannotti, Luigi Proietti, Franca Mazzola, Karina Ofera, Romano Bernardi, Mauro Carbonoli, Gabriella Apolloni, Carlotta Barilli, Vittorio Battarra, Franco Bisazza, Iolanda Cappi, Pino Caruso, Anna Maria Cini, Piera Degli Esposti, Franco Fiorini, Laura Panti, Anna Rodolfi, Marisa Rosales, Alfredo Senarica, Igea Sonni, Vittorio Stagni, Stefano Variale, Wanda Vismara

CAST TECNICO

Autore: Aristofane

Regia: Giuseppe Di Martino

Scene: Giorgio Vodret

Costumi: Giorgio Vodret

Musiche: Bruno Nicolaj

Traduzione: Eugenio Della Valle

Azioni Mimiche: Giancarlo Cobelli

CURIOSITÀ

Gigi stesso ha ricordato, nella sua autobiografia, questa importante esperienza:

“Essere chiamato per quello spettacolo fu un colpo di fortuna. L’attore che faceva uno dei ruoli principali, quello dell’Upupa, dette forfait prima dell’inizio e dovette essere sostituito. Inoltre, per la parte era necessario saper cantare: chi meglio di me! Il regista, Giuseppe De Martino, era molto interessato all’aspetto canoro della mia performance, quindi mi chiese se sapevo raggiungere ottave particolarmente basse. Per tutta risposta gli intonai Oci ciornie, una canzone russa che si spinge a tonalità talmente profonde che sembra di sentire un tubo di scappamento. La cantai tutta in russo: era grammelot, naturalmente. Rimase colpito dal mio vocione e fui scritturato. Anche perché ormai mancavano pochissimi giorni alla prima. Riuscii a memorizzare il copione a tempo di record e, una volta ottenuta la parte, fui mandato al volo dal costumista. Di solito, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, i costumisti sono persone estremamente pratiche. Devono lavorare in gran velocità, sottoponendo a continua manutenzione un’infinità di costumi che ogni sera gli attori in scena strapazzano nei modi più impensati. Questo qui, però, somigliava in tutto e per tutto alla classica macchietta dello stilista d’alta moda. Aveva dei modi inutilmente altezzosi, si credeva un grande artista e usava i corpi degli attori come manichini sui quali dare libero sfogo alla sua immaginazione. Si credeva un grande creativo. Mi fece indossare una calzamaglia di filanca verde che svelava tutte le mie imperfezioni fisiche, una guaina impietosa nella quale avrebbe sfigurato anche Nureyev. Poi prese delle bombolette spray e mi disegnò addosso dei motivi a caso. E per concludere, come tocco finale, mi cosparse di colla a caldo per appiccicarmi del finto piumaggio in tulle e mi piazzò sulla faccia un pesantissimo cono di legno a mo’ di becco.Come se il mio naso non fosse già abbastanza. Dopo questo trattamento, mi buttarono in scena: sembravo appena uscito da un camion dei rifiuti. Sul momento, però, non mi lamentai. «Magari se usa così» pensai, e tenni per me i miei dubbi. Del resto, pe’ diecimila a sera, ce poteva pure sta’. Ma quando alla fine della prova tornai nei camerini e mi tolsi la calzamaglia, mi arrabbiai moltissimo. I colori spray e la colla avevano attraversato il tessuto della calzamaglia e si erano attaccati alla pelle. Mi guardai allo specchio: sembravo un quadro di Picasso. Le rogne legate a quello spettacolo non finirono lì. Ogni sera dovevo inerpicarmi su un trespolo posto molto in alto rispetto al palcoscenico, perché l’Upupa doveva arringare gli altri uccelli da una posizione sopraelevata. La cosa di per sé non mi dava problemi: la struttura era abbastanza solida e io non soffro di vertigini. Recitavamo sempre in questi antichi teatri all’aperto e una sera capitammo in un’arena con una sfortunata peculiarità. Il retro del palco dava sulla strada principale del paese, per cui io mi ritrovai appollaiato su quel palo a circa tre, quattro metri di altezza, completamente visibile dalla strada. Mentre l’opera di Aristofane si svolgeva in tutta la sua antica solennità, alle mie spalle cominciai a sentire un vociare al quale, sulle prime, non prestai attenzione. Più passava il tempo, più il rumore dietro di me si faceva invadente, fino a quando cominciai a distinguere i suoni. Era una pioggia di insulti e pernacchie, gentilmente offerta da alcuni ragazzi del posto. Io ero lì in alto, conciato come un uccello cascato in un frullatore, mentre un pubblico invisibile mi tormentava in tutti i modi. Non potevo far altro che ignorarli e continuare a recitare. Mentre declamavo uno dei miei monologhi – «Venite a me, pennuti compagni! Venite!» – sentii un dolore alla schiena: una sassata. «Quanti pei fertili campi, orzo e sementi ai bifolchi rapite…» Seconda sassata. E io, a bassa voce: «… mortacci vostra! Fitto ed innumere stuolo...». Altro sasso e altro «mortacci vostra». Quest’ultimo lo sentì pure il pubblico. Forse qualcuno si domandò: «Ma Aristofane era romano?». Fu un martirio."

(Da “Tutto Sommato qualcosa mi ricordo, Rizzoli 2013)

CRITICA

“…Un finale inattesamente pirotecnico (ma perché?), con sfavillio di girandole e rimbombo di mortaretti, è apparso l’unica nota stridente del degno spettacolo che è stato illeggiadrito dai costumi del Vodret, armoniosamente commentato dalle musiche di Bruno Nicolaj, ed ha avuti interpreti di lodevole bravura in Tino Carrara, Edmonda Aldini, Franco Sportelli, Armando Bandini, Gianni Bonagura, Luigi Proietti, Franca Mazzola ed in ciascuno dei numerosi elementi del coro.” (Federico Frascani, “Il Dramma”)

“…Tino Carraro e Franco Sportelli, gustosamente complementari, erano i due amici profughi in cerca della città ideale. Comici e acuti. Luigi Proietti, che recita suona e canta con pari bravura, ha creato il personaggio dell’Upupa.” (Giorgio Prosperi, “Il Tempo”)