Teatro - interprete

Il giudizio universale

DETTAGLIO

Anno: 1996
Titolo: Il giudizio universale
Ruolo: Dio, Lucifero
Data di debutto: 02/08/1996
Teatro del debutto: Teatro del Parco Vitelli
Città del debutto: Città di Castello

CAST ARTISTICO

Gigi Proietti, Filippo Sina, Sonia Visentin

CAST TECNICO

Autore: Claudio Ambrosini

Regia: Vincenzo Grisostomi Travaglini

Direttore d'orchestra: Diego Masson

CRITICA
“Parco Vitelli è il luogo di non-luogo. C’è un palcoscenico e da esso si innalza una piramide a larghi gradini, che consente il saliscendi dal vertice. Cioè da un seggio, un trono, sormontato da un grande occhio. Dio (Gigi Proietti), in tunica bianca, sta lì sopra, con in testa un copricapo che ha anch’esso l’occhio. Intorno c’è un cielo azzurrino, traversato da vapori e colori: masse di luce componibili. Si levano fasce sonore, nitide: un suono terso e sperso nello spazio, che ha il suo fascino nel voler essere un’ouverture dell’eternità. Sarà uno dei momenti più felici dell’opera di Claudio Ambrosini (autore anche del libretto): Il Giudizio Universale. È un’opera per Gigi Proietti, non voce recitante, ma proprio attore a tutto tondo, protagonista divino e diabolico. Dio vuol dare inizio all’eternità, e proclama il giorno del giudizio. Affida ad una gara tra un tenore (l’Angelo) e un soprano (il Diavolo) il destino dell’umanità che tutta in blocco, a prescindere da buoni e cattivi, sarà consegnata al vincitore. È un curioso capriccio divino. Ma in questa gara viene un po‘ meno l’invenzione musicale. Il «duello» vocale è prolisso, e l’Angelo e il Diavolo (vuole essere «La regina delle note») indugiano troppo su vocalismi che potrebbero essere subito proiettati nel sovrumano, tra cosmiche tensioni foniche. Quando Dio (Proietti), deluso, interrompe la gara, beh, il pubblico ci sta a quel basta, e applaude. Proietti (Dio) propone nuove situazioni agonistiche tra i due bravissimi e spericolati cantanti. Filippo Pina Castigioni (l’Angelo) viene invitato, e ci riesce a meraviglia, ad adombrare nel suono la pioggia, la grandine, la neve, la tempesta. Il Diavolo (Sonia Visentin, formidabile) è costretto a realizzare situazioni «umane»: sospiri, respiri e poi persino il suono del Tempo che scivola nello Spazio. A malincuore (ma potrebbe essere una finzione), Dio assegna la vittoria al Diavolo. C’è un terrificante tumulto, ed entra in campo Lucifero che non ci sta. Ha la voce infernalmente adeguata e registrata di Proietti stesso. Dice che non ha più posto; all’inferno i cattivi hanno soltanto posti in piedi e figurati i buoni che piagnistei pianterebbero. Così propone di riprendere la sfida in un luogo che dice lui: un pianetino con un po‘ d’acqua e terra, che penserà poi lui stesso ad addobbare come un inferno. E, intanto, perché la gente si abitui, manda sul pianetino l’Angelo e il Diavolo, che smessi i loro abiti, appaiono come Adamo ed Eva sui quali già incombe la cacciata dall’Eden. Con estremo impegno Ambrosini (Luigi Nono lo inseriva tra i compositori che più lo interessavano) ha costruito la trama di suoni, inventando l’Eco a guizzo, il Mangiacode, lo Svelafrasi, il Rimbalzino. Sono nuove conquiste elettroniche, una conquista delle conquiste, è, in questo Giudizio, il trionfo della voce umana, ribadito, subito dopo lo spettacolo (applauditissimi Ambrosini, Vincenzo Grisostomi regista, Diego Masson direttore dell’«Ex Novo Ensemble»), dallo stesso Proietti con una stregata rassegna di sue invenzioni sul tempo che passa, sul panta rei (non ti puoi azzuppare due volte nella stessa acqua), su certi momenti della vita, che non sogneresti mai di avere e subito ti lasciano, sul non fare in tempo ad aprire gli occhi che subito devi chiuderli. Ha evocato anche la presenza di Petrolini e inchiodato il pubblico con telefonate al cellulare e al vecchio telefono. Ha chiuso la magica serata con il Sonetto del Belli sul giorno «der Giudizio» e i quattro angioloni con la tromma in bocca e il terrificante fora a chi tocca. Trionfo dell’umano, dunque. Bellissimo. Una «cosa» così, fa di questo Festival un miracolo di vita, che le Nazioni se lo sognano. È un Festival che vuole uscire fuori dai musei. Domani la conclusione, con danze di solisti della «Staatsoper» di Vienna.”
Erasmo Valente 03/08/1996 L’Unità

Da Genio della lampada a Dio. Una bella carriera per Gigi Proietti. La sua mimetica voce e l' irresistibile comunicativa sono stati protagonisti applauditi - fino al fuori programma non molto appropriato: un estratto da ' A me gli occhi, please' - della prima assoluta di Il giudizio universale, l' opera buffa di Claudio Ambrosini, rappresentata nel parco di Palazzo Vitelli, come appuntamento straordinario del 29esimo Festival delle Nazioni. La presenza di Proietti, mattatore assoluto nel primo episodio, era un' arma a doppio taglio: ha garantito l' attesa del pubblico (impaziente quando lui non c' era) e risposto con straordinaria efficacia alle esigenze plastico-narrative richieste da alcune parti del testo. Ma lo spettacolo è rimasto alla stato di ibrido teatrale. Né ha risolto i dubbi l' ammiccante messa in scena di Vincenzo Grisostomi Travaglini iniziata tra fumi, lamine di luce e nuvole magrittiane: a mezza via tra il Prologo di Mefistofele e un' insistente pubblicità televisiva ambientata nel bar dei cieli. Il libretto dello stesso Ambrosini poggiava su una vicenda grottesca, allegorica più che autenticamente comica e dotata di teatralità autonoma. E la musica? Ambrosini, che ha consegnato il suo eccellente Ex-Novo Ensemble alle cure di Diego Masson, qui ha dato il meglio mettendo in campo oltre al recitante e all' orchestra, due voci (Sonia Visentin e Filippo Pina Castiglioni) chiamate a virtuosismi inconsueti e astrali, moltiplicati nel suono e nella spazialità degli effetti dalla sontuosa orchestrazione e amplificazione in live electronics creata da Alvise Vidolin con le macchine di Tempo Reale. All' attivo una partitura di alto impegno tecnico, iridescente e saporosamente caricaturale nell' ossessiva ricerca di trovate tecnico-strumentali battezzate con termini marinettiani (Eco a guizzo, Svelafrasi, Mangiacode) in cui si dichiara la vocazione sdrammatizzante e l' artifizio divertito. La sofisticatissima elettronica viene usata per "giocare", il più delle volte per pennellare una densa colonna sonora su cui le voci lasciano i propri graffiti virtuosisticamente esagerati. La storia, per capirne il senso. Disegnata dall' autore fin dal 1989, evoca un Dio bonario, ma annoiato che giunto al giorno fatale invece di procedere al giudizio secondo le Scritture, preferisce arbitrare una gara in cui un angelo (maschio) e un diavolo (femmina) si giocano l' eterno soggiorno dei propri protetti. Oggetto della sfida: creare il suono più bello. Un po' stremato dall' inesausta fantasia e dalle ugole d' acciaio dei due contendenti, Dio dovrà a denti stretti legittimare la vittoria della voce diabolica. Ma a quel punto Lucifero (sempre Proietti in versione mugghiante e sulfurea, ma preregistrata) interviene chiamando il Creatore a un patto diverso, ottenendo di rimettere in gioco tutta l' umanità. Da Adamo e Eva. L' atto unico è trattato con operistica metodicità: un' ouverture per iniziare, una sinfonia-danza per concludere. In mezzo una ventina di numeri che richiamano nei titoli e nella "forma chiusa" la fraseologia melodrammatica: aria (con tutte le sottocategorie espressive), recitativo, duetto, arioso (anche "elettrico"), strambotto e via dicendo. Appigli per un' ostentazione belcantistica che si irradia dalle voci umane a quelle sintetiche provocando la vertigine acustica e una sorta di grata sazietà timbrica. Attraverso gli altoparlanti e la mobilità elettronica del suono, una torrida giungla di bellurie vocalistiche avvolge e stordisce il pubblico, facendo intendere che il vero protagonista nel Giudizio Universale non è la voce che recita (seppure travestita fregolianamente dalla bravura di Proietti) ma le mille che cantano.”
Angelo Foletto 03/08/1996 La Repubblica

“… Proietti ha aggiunto al suo Dio una bonomia pretesca (anzi papalina, da ex Stato pontificio) e tra una battuta e l'altra che pareva pensata su misura per lui hai inserito interiezioni, gesti, ammiccamenti per il pubblico, una sorta di codice della risata, sperimentato in trent'anni di teatro. Ma non ha mai fatto concessioni alla facile complicità, neppure quando il pubblico pareva invocarlo. Ha preferito far seguire all'opera una brillantissima farsa, come si usava, concedendo un fuori programma esilarante fino alle lacrime con brani da «A me gli occhi»aggiornati a una feroce satira dei forzati del telefonino…”
Claudia Provvedini, 03/08/1996 Il Corriere della sera