Teatro - interprete

Leggero Leggero

Foto di Tommaso Le Pera
Foto di Tommaso Le Pera

DETTAGLIO

Anno: 1991
Titolo: Leggero Leggero
Data di debutto: 18/12/1991
Teatro del debutto: Teatro Sistina
Città del debutto: Roma

CAST ARTISTICO

Gigi Proietti, Enrico Brignano, Stefania Calandra, Ivana Tozzi

CAST TECNICO

Autore: Gigi Proietti e Roberto Lerici

Regia: Gigi Proietti

Scene e Costumi: Quirino Conti

Musiche: Federico Capranica, Connick junior, Claudio Mattone, Parisotti, Nicola Piovani, Armando Trovajoli

Coreografie: Pancho Garrison

Disegno luci: Franco Ferrari

Direzione Musicale: Gianfranco Lombardi

Regista assistente: Loredana Scaramella

CRITICA
"Intervenire sulle cose è nobile, ma la saggezza consiste anche nel capire il valore di quello che c'è. Se Tomba non andasse al night, leggiamo; se Maradona non avesse preso la coca. Ma siamo proprio sicuri che, cambiandoli, sarebbero stati (sarebbero) ancora più grandi? Io nel dubbio me li terrei così come sono. E a questo punto, mi terrei così com'è, ossia grandissimo, anche Gigi Proietti; al quale da vent'anni tutti diamo consigli, dovrebbe dedicarsi ai classici, cimentarsi col repertorio, fare insomma la carriera di un attore tradizionale. Non è avvenuto, e ormai l'uomo ha passato l'età formativa; è e resterà lo specialista dei pezzi brevi, delle antologie, delle canzoni, dei numeri di virtuosismo; non un maratoneta, insomma, ma uno sprinter, magari capace di replicare un record nella stessa riunione. D'altro canto, sarebbe Proietti il fuoriclasse che è se non si fosse dedicato anima e corpo appunto a questa particolare disciplina? Qualche lustro di Pirandello e di Shakespeare non avrebbero rischiato di appannare un po' la verve diabolica con cui fingendo di parlare d'altro, esibisce se stesso? «Leggero, leggero» è una lunga raccolta di assolo messa insieme dall'attore con Roberto Lerici (ma fra gli autori dei singoli brani sono Luigi Magni, Stefano Benni, Claudio Mattone e molti altri), per l'accompagnamento di un'orchestra di dieci elementi presente sul palcoscenico, come ora spesso si usa, sui gradini di una scalinata nera che sale fino in cielo, e con minimi interventi di tre giovani allievi. Proietti, il quale a un certo punto pronuncia una preghiera a Dio che gli eviti di avvicinarsi a qualsiasi forma di impegno (Dio non la esaudisce, prima della fine lo ascolteremo in un pezzo di indignazione su tempora e mores odierni), simula di essere alla fine di un altro spettacolo, e riceve fiori e ovazioni di commiato. Poi parla col pubblico, illustra i trucchi con cui gli attori riescono a suscitare l'applauso - e ancora una volta la gente si rivela avida di sbirciare nella cucina dell'arte istrionica -; quindi comincia a meditare ad alta voce su come potrebbe iniziare un nuovo spettacolo, e così inanella sketches per un'ora e un quarto. E dopo l'intervallo sciorina un'altra ora abbondante di sketches consimili, con uno sfoggio di energia impressionante almeno quanto quello del talento; ci sono momenti in cui si ha la sensazione che se venissero a mancare le sontuose luci di Franco Ferrari, l'intrattenitore riuscirebbe lo stesso a non essere inghiottito dal buio, emanando un alone come una veilleuse. Cosa fa Proietti? Al solito, di tutto, con giustapposizioni capricciose e talvolta irresistibili, come quando interrompe l'interminabile vocalizzo di uno stornello romanesco per eseguire una strofa di rock con impeccabile accento americano, diventare uno chansonnier parigino e poi tornare al romanesco di partenza. Fa - restando nell'ambito della blanda ironia sul teatro, alla quale gran parte della serata è dedicata - una primadonna toscana che poi recita un brano di pseudogoldoni in veneto; fa un interprete pirandelliano invischiato in un ragionamento tortuosissimo; prende in giro, perfino, i giovani imbranati del nuovo teatro minimalista, anche se immagino pochi frequentatori del Sistina ne avranno conoscenza diretta. Resuscita suoi vecchi numeri immortali, come la presa in giro di una vecchia, enfatica traduzione di «Essere o non essere» («Le frombole?»); come bis, dice ancora una volta, strepitosamente, «E io bevo» di Eduardo. Ha, come ben sappiamo, e a josa, presenza, voce, concentrazione, coordinazione, intensità; sprizza dagli occhi veri lampi di malizia, come doveva fare Petrolini; il suo orecchio per riprodurre voci e accenti è inarrivabile come la sua musicalità, basta sentirgli cantare la canzone del pastorello con cui inizia il terz'atto di «Tosca» nella versione originale romana e poi in quella di Puccini (è un brano che certo lo affascina, come regista dell'opera fece addirittura vedere il personaggio, che si dovrebbe solo sentire). Parte del nuovo copione è banalotta o peggio, vedi lo sketch con Ofelia (la bellissima e semimuta Stefania Calandra) che si denuda; quasi tutti i pezzi migliori vengono da spettacoli precedenti. Ma non importa, quando ha una battuta cretina Proietti ammicca alla sua inadeguatezza, e fa ridere lo stesso; ha una tale capacità di sottolineare anche una sola parola, una sillaba, che cattura sempre e comunque. Attraverserà la vita continuando a mostrarci quanto è bravo, e noi, come ieri al Sistina, a applaudirlo. Se vi piacciono i banchetti di soli antipasti, non ne troverete mai uno migliore." 
Masolino d'Amico 20/12/1991 La Stampa

“…Proietti, si sa, è un fenomeno tutto particolare perché "si basta da solo" come monologatore, cantante, fantasista, mimo, eccetera eccetera: la sua vena è probabilmente sentimentale ma proprio per esorcizzare ogni sospetto di patetismo, egli sembra volersi sopraffare scatenandosi in una tagliente ironia su tutto e su tutti. Ama i classici, certo, ma gli piace farne polpetta: e così stavolta restiamo ammaliati da un suo Amleto schizoide, da un suo Pirandello che risibilmente si aggroviglia senza via di scampo nei labirinti dell'astrusità e soprattutto da una damazza goldoniana capace di mortificare per sempre le cattive abitudini di tanto goldonismo di maniera. Ama e conosce la musica popolare, lo sappiamo, ma anche di questa fa allegro strazio in una esilarante parodia dei gorgheggiacci della canzone romanesca, dei rockettari da stadio, dei singhiozzatori del flamenco, della convenzione Canaille del pariginismo alla Maurice Chevalier. Di tanto sacrilegio sa farsi poi perdonare appartandosi con la sua chitarra in un canto d'amore ma, subito dopo la commozione, lo sberleffo ed eccolo nella geniale macchietta di un imbecille totale che sarebbe piaciuto a Petrolini, eccolo nei panni di un «pataccaro» che si esprime con gestualità demenziale, eccolo improvvisare ammiccamenti con la platea e dialoghi con i musicisti schierati alle sue spalle sulla nera gradinata in cui consiste, ma lussuosamente, l’impianto scenico firmato Quirino Conti. Fanno il resto le luci egregiamente funzionali ideate da Franco Ferrari…”
Ghigo De Chiara, 23/12/1991, L’Avanti

"Incomincia col finale il nuovo spettacolo di Gigi Proietti; incomincia con un trionfo, le note di ' Nun je da' retta Roma' e una pioggia invocata di consensi ("con gli applausi io ci campo"), quasi non fossero il saluto per l' entrata, ma l' esito di un successo, magari quello di un altro suo recital: ed è evidente la citazione di A me gli occhi, please, per stabilire una connessione lunga quindici anni. Una scenografia asettica e sontuosa Sono altri tempi però rispetto a quell' epopea di teatro fatto in casa, continuata col più corrivo Come vi piace, quando la polemica dell' attore con la società veniva condotta all' interno del mezzo e coincideva con lo scrollarsi di una personalità poco contenibile dai ruoli. Ora sullo sfondo figura una scenografia asettica e sontuosa, l' ergersi di una ripidissima scalinata, luccicante come uno specchio nero, che richiama l' impianto di Sophisticated Comedy o più direttamente la gradinata dell' Opera da tre soldi di Colonia vista a Spoleto. Nei banchi ideati da Quirino Conti tra le scale (praticamente non utilizzate), tra il roteare di grappoli di spot multicolori, spuntano i solisti dell' orchestra; dalle quinte, in costumi che arieggiano il clown e Pierrot, accorrono anche tre attori, Enrico Brignano, Ivana Tozzi e Stefania Calandra, a fare da spalle o da valletti. Per l' attore e il personaggio Proietti allora la ricerca dell' immaginario bis, anzi del ' bisse' , per il finto spettacolo che sta per finire si confonde con la ricerca di un inizio per Leggero leggero, uno show che vuole indicare nel titolo un genere evasivo e la fuga in un tempo musicale, e si traveste quindi fregolisticamente da altri spettacoli, col proposito dichiaratissimo e sarcastico di non impegnarsi a parlare di qualcosa, attenendosi a quella superficialità nella quale personaggi illustri hanno cercato il profondo: la serie degl' inizi simulati intende solo condurre alla parata dei finali da inventare, virgolettando il vuoto. Questo si riassume in un festival dell' effimero teatrale, nel gioco labirintico di un' inesauribile autopresentazione, dove l' Attore-mostro, dopo essersi inscatolato in confezione da entertainer anglosassone, si sfida a sorvegliarsi dialogando col pubblico ' con sguardo piacionico' e il partito preso di non sbracare se non dichiarandolo espressamente. Così il romanesco decade da lingua ufficiale, ma diviene occasione filologica nei diversi rivoli che conducono al Belli o nei confronti coi godibili neologismi del ' coatto' ; e fioriscono le puntate non solo canore nel napoletano, per arricchire la koiné con ricorsi al veneto o al lombardo, allo spagnolesco e alle lingue della Comunità e dell' Impero, quando non si approda alla magistrale traduzione consecutiva nel linguaggio dei gesti dei nonsensi verbali di Pietro Ammicca, una maschera televisiva ormai acquisita. E' la crisi della comunicazione Ci sono Stefano Benni, Gianfelice Imparato, Gigi Magni tra gli altri a offrire contributi di rinforzo (qualcuno tuttora in frigorifero) al testo di Roberto Lerici, che continua in questa sua ennesima sceneggiatura a braccio la trafila da autore d' avanguardia a soggettista di compagnia, trasferendo la sua vena corrosiva da Quartucci e Bene a Proietti, con digressioni per Tinto Brass. Un malessere circola, anche se non è evidente, in questi testi centrati su una crisi della comunicazione generata da eccesso. Ma allo straparlare da cui siamo sommersi soltanto si accenna, mettendo con eleganza da parte le citazioni dei teatranti di serie B della politica; anzi polemicamente Proietti dedica alla situazione un minuto di silenzio con un gesto avvicinabile a quello di Leo De Berardinis, quando nel suo ultimo spettacolo accendeva la luce per guardare il pubblico negli occhi. Ma ecco in scena gli eterni cliché dei teatranti; e sfilano per interposta persona Fabrizi, un' immagine spiritata di Fo, Gassman, Petrolini, ma anche Joe Cocker, e l' esemplare attrice fiorentina protagonista di una tipica intervista. Una rassegna bruciante colpisce le mode vetuste dei nostri palcoscenici: la damina goldoniana e i filosofemi e l' improponibile intercalare di una sintesi iperpirandelliana, il trionfo dei gesti insignificanti in una parodia minimalista; non manca evidentemente Shakespeare costretto però ad arrancare, perché risulta sdato l' ' essere o non essere' in versione aulica, e insapore il numero di Ofelia che si spoglia rubando la scena ad Amleto che l' invita a ritirarsi in convento. E un largo spazio è assorbito dal repertorio multilingue di canzoni, con gran rilievo al flamenco e didascalica dimostrazione dal cha cha cha, esibizioni da rocker e imitazione dello chansonnier, uso della chitarra e tentativi di appropriazione del  "guiro" e del sax, definito "una zampogna senza la pelle", congeniale di conseguenza a un conclusivo augurio natalizio. Ma il vero finale, festeggiamenti a parte, con il supporto di Verdi e di Dante, tira fuori un' invettiva contro il mondo che va a rotoli: il sottinteso di una serata "leggera leggera" che per rendere più intensa l' effervescenza delle sue tre ore necessiterebbe di qualche potatura. al Teatro Sistina di Roma”.
Franco Quadri, 21/12/1991 La Repubblica