Teatro - interprete
Serata d'Onore
DETTAGLIO
Anno: 2004Titolo: Serata d'Onore
Data di debutto: 26/04/2004
Teatro del debutto: Teatro Brancaccio
Città del debutto: Roma
CAST ARTISTICO
Gigi Proietti, Massimiliano Giovanetti, Simona Samarelli, Tatiana Biagioni, Ketty Roselli, Carlotta Proietti, Susanna Proietti, Siby Belcaro, Alessandro Procoli, Marco Spampy, Marco ZadraCAST TECNICO
Autore: Luigi Magni, Roberto Lerici, Gianni Clementi, Dino Verde, Fiorenzo Fiorentini, Bruno Lauzi, Sergio Bardotti, Bruno
Regia: Gigi Proietti
Costumi: Susanna Proietti
Musiche: Pippo Caruso
Coreografie: Fabrizio Angelini
Disegno luci: Giuseppe Ardizzone
Progetto fonico: Ernesto Mari
Direttore Tecnico: Stefano Cianfichi
Collaborazione artistica: Massimiliano Giovanetti
Direzione musicale: Mario Vicari
CRITICA
“Una ragione ci deve pur essere, alla complessità di Gigi Proietti; al suo eclettismo, alla sua inesausta capacità di farsi menestrello e Pasquino, tribuno e console, Petrolini e Belli. Al suo cantare buono per il night e per il Caesar’s Palace. Alla sua propensione barzellettara che si stempera, quando meno te l'aspetti, in aristocratica parola shakespeariana, oppure in bordate di satira all’improvviso. Una ragione ci deve pur essere per quella che l'attore percepisce come inimicizia da parte dell'ambiente ad ogni nuovo successo. Si tratta, per parlare chiaro, di supremazia, di bravura, di repertorio, stile, talento, possibilità.
Un melange che Vittorio Gassman, a suo tempo, riassumeva, lui genovese, in una tipica frase romana: «e non ce vonno sta». Eppure ieri sera, al Politeama Brancaccio, in occasione dei suoi quarant'anni di scena, celebrati con il recital Serata d'onore, «ci sono stati tutti». Hanno dovuto. Difficilmente Gigi, nell'occasione, troverà chi, povero di spirito, sia capace di alcunché contrario; difficilmente il popolo romano (e non) riuscirà ad essere men che plebiscitario di fronte all'omaggio confezionato per la città delle radici, della vita, del cuore.
Serata d'onore è davvero, nella struttura e nello spirito, una dichiarazione d'amore a Roma, fonte di lingua e storia, tipi e canzoni, costumi e passioni. Tanto che Proietti comincia a cavallo, in foggia di Marc’Aurelio, imperatore strappato al Campidoglio perché racconti l'Urbe di ieri e di oggi con le parole del lungo monologo scritto da Gigi Magni. Sulla testa del recitante, però, suona, fra luci sofisticate, un'orchestra da ballo, vero e proprio sogno popolare sospeso a mezz'aria, citazione di fasti ai quali il teatro non è più abituato. In tanta atmosfera, il protagonista fa tutto e di tutto. Chiacchiera dei gatti romani, solitario in gruppo dentro le nostre rovine; si appella al buon senso e alla sintesi schiacciante del vernacolo per smentire certe sciacquature degli idiomi ufficiali; disquisisce sul concetto di volgarità, riedita Anna Magnani, lo stesso Gassman, Paolo Stoppa, Mario Carotenuto, Renato Rascel, Aldo Fabrizi, le «voci di fuori»; lavoro di fino con un gruppo di giovani; dà licenza alle due figlie, Susanna e Carlotta, di «mettere bocca», brevemente, nello spettacolo. Si inventa una parodia della Signora delle camelie e offre il monologo di Shylock dal Mercante di Venezia di Shakespeare. E canta, alla grande: musica vecchia con parole nuove o viceversa. Un gran piacere. La gente, si sa, per Gigi stravede. C'è chi ride, c'è chi si commuove ancor prima di ascoltarlo, ancor prima di capire se il piatto offerto sia un antipasto, un primo o la portata reale. Grato di tanto affetto, il mattatore fa seguire alla serata un secondo tempo (interamente dedicato ai bis) dove non mancano i cavalli di battaglia, l'Othello, ormai proverbiale dopo stagioni e stagioni di risate, ed il vecchietto affabulatore, specializzato in fiabe porno. Né si ricusa alle richieste lanciate a voce alta dalla platea: le canzoni della gloria, le storielle di taverna, le poesie di vicolo e di alcova, i fattacci di coltello, lo spirito quirite in tutte le sue sfaccettature. Alla fine, si sa, è l’ovazione. Lui non si schernisce ed è felice. Tutti in piedi a salutarlo e ad onorarlo. Nulla è esistito se non il trionfo.”
Rita Sala, 25/04/2004 Il Messaggero
Quarant’anni di teatro e sembra un ragazzo, Gigi Proietti. Sarà per quel sorriso ampio, l’andatura dinoccolata, il parlare da «core de Roma». O forse è l’abbraccio caldo del pubblico, quel dialogo da innamorati che corre ininterrotto da lustri fra lui e gli spettatori. Gli unici accreditati
a decretare le sue direzioni, che, infatti, da anni seguono e perseguono il modello di successo di A me gli occhi, please, il monologo
di acrobazie d’attore nel quale Proietti si destreggia dal 1976.
Serata d’onore - con la quale l’artista «festeggia» i suoi quarant’anni di palcoscenico al Brancaccio fino al 30 maggio - è dichiaratamente (nelle note di programma) «l’ultimo dei figli» di quello spettacolo,
ma sarebbe ingeneroso leggerci solo una passerella di bravure, di gag carpiate, di inserti inediti che ribadiscono l’edito, di canzoni d’autore (musiche originali di Pippo Caruso). Serata d’onore è, naturalmente,
tutto questo ed è il motivo principale per cui in sala si riversano ospiti illustri e gli inevitabili fan del maresciallo più famoso d’Italia, da Sabrina Ferilli a GigiMagni, dal sindaco di Roma, Walter Veltroni, a Massimo D’Alema. Proietti è a cavallo, nel senso fisico del termine: in groppa a Limortaccitua, l’equino del Marcaurelio di cui veste i panni per parlare di Roma, la sua Roma, che mantiene intatte identità e dignità nel corso dei secoli. È il brano nuovo, costruitogli su misura da Magni, ma è sulla falsariga di quel che Gigi sa fare con tanta sperticata abilità da calzarlo come una pelle: il romano de Roma, anima smagata e bonacciona, sempre pronta a ruga’, a motteggiare, polemizzare, rintuzzare, dargli di tacco e di punta con grande spasso per chi lo sta a sentire. E quando
scende da cavallo, Gigi è ancora lì a ricamare motti e allusioni, battute e sguardi di fuoco. Ma in Serata d’onore c’è anche - ed è questo l’aspetto più in ombra e più interessante - una sorta di riflessione a voce alta nelle pieghe delle scenette. Come rileggere un vecchio diario e sottolineare quei passaggi che hanno determinato le scelte.Nella
partitura festosa, accompagnata da trionfi orchestrali (ben 15 musicisti) e uno stormo di otto giovani attori, si appuntano così microscopiche didascalie. Come quando Proietti ricorda i suoi esordi nell’avanguardia, nelle cantine off, con Antonio Calenda regista e Corrado Augias
(sì, proprio il giornalista) autore di vertiginosi titoli come Direzione Memorie e il padre scuoteva la testa e gli diceva: «Fa un po’ come te pare...». Vecchia querelle, punto dolens: a Gigi i critici hanno rinfacciato
spesso di aver messo da parte il teatro d’impegno per spendersi come comico popolare. Lui fa come davanti a Marzullo: si fa una domanda e si dà una risposta. La risposta è quella di una sera dopo il debutto
in un’opera di Petrassi dove l’attore interpretava una canorità d’avanguardia. Si fecero avanti un vigile e un altro spettatore per dirgli: «Pst, Proietti: mai più!». E Gigi ha scelto. Ha scelto chi lo guarda, lo
segue, lo adora. Incatenato al suo stesso successo, a ripetere evergreen di travolgente divertimento. Forse dovremo rinunciare a vederlo in uno Shakespeare serio da cima a fondo: Gigi cuore di Puck va oltre. Lo sfodera e lo rinfodera, si mette i panni di Otello, anzi
Othello, per dritto e per rovescio. Attore nell’essere attore, finzione scenica al cubo. Forse ha ragione lui. Nel secondo tempo di uno spettacolo nel quale dà spazio, come a una vera festa
in famiglia, ai ragazzi della sua scuola e alle sue figlie (Carlotta cantante e Susanna attrice), Proietti trova una vena d’oro nei ricordi a ridosso delle scene ed evoca da formidabile proteo Aldo Fabrizi, Paolo Stoppa, l’amico e rivale Gassman (pentendosi un po’ di non aver fatto lo Jago che Vittorio gli chiedeva), omaggia Sordi e fa ricordare la voce di Gabriella Ferri dalle ragazze del coro. È un misto di leggera malinconia, polvere di teatro fra nostalgia e scintillio di lustrini. È vedere un Kean
bifronte, l’attore straordinario e il suo doppio ironico. Artaud voleva un teatro crudele. Proietti ne sceglie uno umanissimo come
fece, al cinema, Totò. La catarsi che propone è l’irresistibile nonno contafiabe davanti al camino, che si inceppa, le imbroglia,
le mette in zuppa e ti fa devastare dalle risate. Impossibile resistergli. Il resto è - sembra - noia.
Rossella Battisti 26/04/2004 L’Unità
“Di colpo, con la sua Serata d'onore, con cui ha festeggiato quarant'anni di teatro, Gigi proietti mi ha fatto capire perché mi piace Peter Sellars. Il salto è lungo ma adesso mi spiego. Confrontando Serata d'onore con un recente Othello dell'inglese Declan Donellan e con Fiore, nessuno e centomila di Fiorello visto qualche tempo fa, vale a dire con uno spettacolo simile e uno opposto, le mie preferenze andavano a Proietti.Perché? Per quanto Donnellan sia un regista moderno e privo di fronzoli, cerca un effetto che non ottiene: cerca l'identificazione dello spettatore con una materia tragica. Ma lo spettatore contemporaneo vive in un mondo che non gli consente una simile identificazione: la tragedia lo invade di continuo e nello stesso tempo ne è troppo lontano o, almeno, è lontano dal suo significato. La forza di Sellars è che mettendo in scena Euripide non cerca fatto questa identificazione. La sua tragica materia la tiene ad una giusta distanza. Diverso il discorso di Fiorello. Per me Fiorello è stata una scoperta. A teatro si è rivelato un eccezionale entertainer: elegante, leggero, flessibile come l'intera materia che classifichiamo post-moderna. Però, Proietti è più ricco.O, poiché i paragoni sono inopportuni dico che se Fiorello ha la forza di un solista, Proietti, benché solo, ha quella di un’orchestra. I pubblici di Fiorello e di Proietti sono più o meno simili, sono pubblici in gran parte televisivi, quindi eterogenei, misti. Si entra nella platea del Brancaccio e quasi si rimane increduli. C'è una folla enorme: dal sindaco Veltroni all'ex ministro Berlinguer, da Ettore Scola a Gianni Mine, dalle attrici di soap ai loro spettatori, per l'occasione vestiti a festa. Questo pubblico, e l’altro, quello di Fiorello, producono un «fiato dello spettatore» di inaudita potenza: che sostiene la fatica del suo beniamino.ma costui, questo Beniamino, di sostegno non ha bisogno. Proietti è d’una vitalità che fa paura. Sta lassù, in groppa al suo cavallo. E’ Marco Aurelio, ci riassume la storia di Roma, scritta dall'amico Luigi Magni. Roma ha visto tutto, tutto ha vissuto: dai cristiani che abbatterono le statue dei pagani, «quelli che pagavano», agli esportatori di democrazia e a lady Darwin. A Roma, nulla può fare paura.Né a me né a te, dice l'imperatore al cavallo. Pure, "io non so io", sia io che te "semo copie; temo una copia, una strana copia». La fluidità del racconto è impareggiabile.
Non ci accorgiamo che Proietti passa da una storia all'altra, o da una storia ad una canzone o ad un tenero omaggio alla figlia, che canta (Carlotta o Susanna, non so). Il secondo tempo è più breve del primo, sciorina i «cavalli di battaglia»: dalla rievocazione degli inizi avanguardistici, sotto gli occhi del costernato padre, alla collaborazione con Petrassi e Carter; dalla imitazione di Sordi e Fabrizi a quella (il pezzo migliore della serata) di Paolo Stoppa. Vale la pena andare al Brancaccio per vedere come Proietti imita il ghignante, sardonico, rabbioso Stoppa nel monologo di Shylock, il mercante di Venezia.
Ma c'è anche un ricordo di Gabriella Ferri, con Le Mantellate sue e di Fiorenzo Carpi e di Giorgio Strehler, che di quella magnifica canzone sono gli autori; e c'è quel rocambolesco finale, una storia composta da tutte le favole del mondo, intrecciate l'una all’altra. E’ qui che si vede come Proietti sia appunto un'orchestra, non già un solista; e come l'identificazione, che sempre cerchiamo, sia facile, dolce, infantile: alla Serata d'onore di Proietti si torna bambini.
Franco Cordelli 26/04/2004 Il Corriere della Sera
“Gigi Proietti, il più shakespeariano dei nostri grandi giullari, il più chansonnier dei nostri artisti, il più brechtian-petroliniano dei nostri mattatori, fa un nuovo punto della situazione. è un viaggio senza risparmio nella cultura disciplinata e popolare, ed è una lezione infaticabile di linguaggi, di memorie comiche del '900, di fronde poetiche, di cespiti canori, di quisquilie recitative e di entertainment a base di drammaturgia, ma è anche uno spettacolo quasi tutto inedito, la Serata d' onore con cui Proietti festeggia al Politeama Brancaccio i suoi 40 anni di teatro, senza ricorrere a man bassa al proprio repertorio come la formula del titolo autorizzerebbe. Con la riproduzione in effigie di Castore e Polluce che cingono ai lati il palcoscenico, al centro d' un immaginario Campidoglio, su un cavallo verde rame, Proietti avvia una flemmatica arte oratoria in panni di Marc' Aurelio che distilla annales composti da Gigi Magni, e si va dai barbari occupatori agli americani liberatori. Dopo il prologo ironicamente statuario, scappa fuori lo showman che non ha nulla da invidiare a idoli seri della Francia e degli Stati Uniti degli ultimi trent' anni, uno capace di fare il Sinatra e il Pasquino abbandonandosi di colpo "come naufrago alle cose" a un' evocazione malinconica di Camillo Sbarbaro. Certo, anche nel Proietti più flessibile, più incline al florilegio dei canoni e dei generi, ribolle sempre un che di irruento e di icastico tutto sprigionato dalla sapienza romana, e il suo capitolo sulla volgarità relativa del lessico dell' Urbe ha una felicità di polemica (antileghista), di radici letterarie (cita un Belli da manuale) e di sintesi scatologica (sgrana umorismi da paura) che pare proprio di rileggere un Devoto-Oli vernacolare. Ed è capace anche, questo monstre dai tanti volti, di dare un senso epidermico a partiture sincopate, di fare swing e magari duettare in "Moon Dance" di Van Morrison con la (impeccabile) figlia cantante Carlotta al suo debutto, di rinsanguare a forza di svarioni e tormentoni la tecniche delle bellurie farsesche qui applicate (in omaggio a Dino Verde) al "La Signora dalle Camelie", di affrontare con compostezza il monologo di Shylock sulla propria identità ebraica per poi ricavarci aneddoti affettuosi su Paolo Stoppa. Ecco uno dei profili-guida di questa Serata d' onore: non tanto (o per lo meno: non solo) ricapitolare se stesso, ma piuttosto chiamare in causa, da artista, vari artisti che hanno creato usanze e coscienze: Sordi, Gassman, la Magnani, Rascel, Fabrizi, Carotenuto, la Ferri, Carpi e Strehler, Garinei e Giovannini. E la serata con musiche di Pippo Caruso e con orchestra, con costumi dell' altra figlia Susanna, anche attrice, con Massimiliano Giovanetti e tutto il cast giovane ha il senso di un albo pieno di idiomi e storia (infinita) del talento.”
Rodolfo Di Giammarco 26/04/2004 La Repubblica